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Medicina Stomatologica

ALITOSI

Definita più comunemente "alito cattivo", è frequente a tutte le età (dai bambini agli anziani), ed è caratterizzata da un odore sgradevole dell'aria emessa dal cavo orale. Sebbene ce l'abbiano "sotto il naso" molte persone non sono consapevoli dell'odore del loro alito; per altre, invece, l'alitosi può essere fonte di imbarazzo e disagio.

ALITOSI TRANSITORIA: è legata ad alcuni momenti (risveglio) o ad abitudini errate ( alimentazione, fumo).

ALITOSI PERSISTENTE: è dovuta nella maggioranza dei casi a problemi legati a denti e/o gengive: solo una modesta percentuale è legata a problemi medici extraorali.

La causa spesso è da ricercare nei VSC ( composti sulfurei volatili), soprattutto metilmercaptano (CH3SH) e idrogeno solforato (H2S). Questi si sviluppano nella cavità orale dalla degradazione degli aminoacidi contenenti zolfo presenti nei residui alimentari, nella saliva, etc. ad opera di microorganismi presenti nella placca. I VSC sono responsabili del 90% dei casi di alitosi. Si è rilevato che, all'aumentare della presenza di VSC nell'alito, aumenta anche l'intensità dell'alitosi.

SINTOMI ASSOCIATI ALL'ALITOSI

  • presenza di patina bianca sulla lingua
  • secchezza a bocca e denti
  • alito cattivo al mattino e sensazione di bruciore alla gola
  • saliva appiccicosa e costante sensazione di doversi schiarire in gola
  • Gusto metallico e/o amaro

CAUSE DI ALITOSI

  1. SCORRETTA IGIENE ORALE : se non si attua una corretta igiene orale, le particelle di cibo che si depositano tra i denti, sulle gengive e sulla lingua, possono provocare cattivo odore e favorire la crescita di micororganismi che producono i composti sulfurei volatili (VSC) responsabili dell'alitosi.
  2. MALATTIA PARODONTALE:  alitosi e gusto sgradevole persistenti, sono alcuni dei segnali di malattia parodontale. La malattia parodontale è una condizione nella quale i batteri attaccano il tessuto che circonda e sostiene i denti, provocando un'infiammazione che, nei casi più gravi, può causare la perdita dei denti stessi.
  3. CARIE:  i batteri presenti nella placca, trasformano gli zuccheri in acidi, i quali possono intaccare prima lo smalto e poi la dentina, dando luogo alla formazione di una cavità (carie dentale) che, se non curata, può ingrandire distruggendo progressivamente il dente. I residui di cibo e placca che si depositano dentro le cavità cariose, possono provocare alitosi.
  4. PROTESI MOBILE:  se non pulita correttamente, può alloggiare particelle di cibo e batteri, causa di alitosi.
  5. ALIMENTAZIONE:  oltre a cibi come aglio, cipolla e cavolfiore, il consumo elevato di cibi proteici contenenti aminoacidi solforati (carni e formaggi) o di vevande alcoliche, può provocare alitosi a causa di sostanze che entrano nel sangue, vengono trasferite con esso ai polmoni, ed esalate col respiro. L'uso di spazzolino, filo interdentale e colluttorio può temporaneamente mascherare l'odore che scompare solo quando l'organismo elimina le sostanze che provocano alitosi. Se siete preoccupati per il persistere dell'alitosi, raccogliete una lista dei cibi introdotti, così da poter riscontrare se può dipendere dalla vostra alimentazione. Anche intervalli troppo lunghi tra i pasti possono contribuire ad alito cattivo, sia perchè la ridotta produzione di saliva non consente la naturale autodetersione della bocca e sia per l'utilizzo da parte dell'organismo delle proprie riserve di grassi e proteine con conseguente produzione di sostanze responsabili di alitosi.
  6. BOCCA SECCA (XEROSTOMIA):  La saliva contribuisce all'autodetersione della bocca. In caso di diminuizione del flusso salivare, dovuto a farmaci, problemi alle ghiandole salivari o continua respirazione attraverso la bocca, potreste avere delle condizioni di bocca secca, con maggiore ristagno di placca e residui alimentari, causa di alitosi. Per stimolare la produzione di saliva, potrebbero essere utili caramelle o gomme senza zucchero, oltre all'aumento della quantità di liquidi assunti quotidianamente.
  7. FUMO:  Il fumo da luogo ad alito cattivo (oltre a pigmentazioni sui denti, irritazione dei tessuti, riduzione della capacità di gustare i cibi ed aumento del rischio di malattia parodontale), in quanto provoca una diminuzione della fluidità salivare. Inoltre i residui ddel fumo di tabacco, aderendo ai denti e alle mucose della bocca, favoriscono la crescita di batteri responsabili dell'alitosi. Si è rilevato che, anche l'esposizione a fumo passivo, provoca alitosi.
  8. FARMACI: Alcuni farmaci (ad esempio alcuni tipi di antipertensivi e alcuni psicofarmaci) possono provocare alitosi a causa di sostanze in essi contenute o, indirettamente, diminuendo la produzione di saliva.
  9. FATTORI ORMONALI: L'alitosi può essere collegata a fattori ormonali come gravidnaza e periodo mestruale.
  10. ANORESSIA: Soggetti anoressici possono presentare alitosi per l'abitudine di vomitare tutto ciò che mangiano ed avere sempre la bocca umettata da succhi gastrici del reflusso.
  11. ALTRE CAUSE: In una piccola percentuale di casi l'alitosi può essere il segnale di un problema medico, come un'infezione del tratto respiratorio (naso, gola, trachea, polmoni), sinusite cronica, bronchite cronica, diabete, disturbi gastrointestinali, renali o al fegato. Una volta escluso che l'alitosi abbia origine da problemi orali o di alimentazione, potrebbe essere necessario fare degli accertamenti medici per determinarne la causa.

ALITOSI DA RISVEGLIO

Quando non siano presenti problemi a denti o gengive, l'alitosi da risveglio è dovuta ad una diminuzione della salivazione associata a ridotti movimenti della bocca e, soprattutto, a respirazione orale durante il sonno. In queste condizioni vi è una proliferazione soprattutto sulla superficie linguale, dei microorganismi che producono le sostanze responsabili di alitosi.

COME VERIFICARE IL VOSTRO ALITO

  • Sporgere la lingua fuori dalla bocca il più possibile e strofinarla due o tre volte con una garza: annusare la garza dopo un minuto.
  • passare un filo interdentale bianco non cerato e non profumato tra i molari superiori ed inferiori. Annusare il filo dopo un minuto.
  • Passare la lingua sul polso pulito senza aver messo alcun profumo. Annusare il polso dopo un minuto.

Nei casi in cui l'alitosi fosse la spia di un problema medico non dipendente da problemi orali, o da alimentazione, fumo o alcol, va individuata ed opportunamente trattata l'eventuale causa.

PREVENZIONE E TRATTAMENTO DDELL'ALITOSI

  1. Mantenete una corretta igiene orale. Spazzolate i denti almeno due volte al giorno, non dimenticare la sera.
  2. Utilizzate il filo interdentale o lo scovolino almeno una volta al giorno
  3. Spazzolate anche la lingua con spazzolino morbido e collutorio o con l'apposito puliscilingua
  4. Se portate la protesi mobile, pulitela accuratamente dopo ogni pasto.
  5. Fate controlli dentistici con regolarità.
  6. Fate delle sedute regolari di igiene dentale.
  7. Bevete molti liquidi.
  8. Evitate l'abuso di fumo e alcol.
  9. Mangiate tanta verdura e frutta fresche.

Se rilevate presenza di alitosi o qualcuno ve lo fa notare, rivolgetevi al vostro dentista di fiducia. Egli sarà in grado, con un'accurata diagnosi e un accurato esame obiettivo, a ritrovare le cause della vostra alitosi e porvi rimedio.

 

  

IL DOLORE ACUTO

G Varrassi, F Marinangeli, C Cocco

Università degli Studi di L’Aquila, Servizio di Anestesia e Rianimazione

67100 L‘Aquila

 

Il dolore acuto è stato definito come un dolore ad inizio recente e probabile

durata limitata. Esso generalmente ha una correlazione causale e temporale

identificabile con un danno tissutale o con una malattia. Ciò Io distingue dal

dolore cronico che viene definito come un dolore persistente per  lunghi  periodi di

tempo. Il dolore cronico, infatti, generalmente persiste al di la del tempo di

guarigione del danno e frequentemente può non avere una causa chiaramente

identificabile.

Il medico deve costantemente tenere presente che il dolore acuto è un sintomo.

Come tale esso generalmente segnala un danno tissutale attuale o incombente.

Pertanto esso deve essere trattato solo se la cause che è alla sua base è nota,

se vi e un piano diagnostico ben preciso o se tutte le possibili cause sono state

escluse. Molti studi hanno dimostrato che il dolore acuto nel passato è stato

trattato in maniera inefficace dando luogo ad una sofferenza inutile in pazienti

che avevano subito un trauma, erano stati sottoposti ad intervento chirurgico o,

semplicemente, dovevano partorire, erano affetti da alcune condizioni mediche

dolorose o avevano un cancro. Le motivazioni per un trattamento inefficace sono

svariate. Principalmente esse sono la conseguenza della mancanza di

conoscenze e di capacità da parte dell'equipe addetta alle cure, e dei

responsabili per l’organizzazione del sistema sanitario, inclusi gli organi di

governo.

Solo recentemente si è visto che vi e un'ampia variazione individuale nella

quantità di dolore che si percepisce in risposta a un preciso stimolo. Vi è anche

una grande differenza nelle risposte a particolari approcci terapeutici. Queste

differenze sono in parte un risultato delle differenze genetiche interindividuali ma

sono anche dovute a fattori di modulazione non fisiologici che fanno de contorno

ad ogni condizione di dolore: l'ansia, la paura, il senso del controllo, il substrato

etno-culturale e le precedenti esperienze dolorose individuali (1).

 

FISIOPATOLOGIA DEL DOLORE

 

Esso inizia con una offesa alle strutture intertegumentali di qualche sistema o

organo.

Il danno tissutale provoca la liberazione di sostanze come gli ioni potassio,

bradichinina (BK) e serotonina (5-HT). La BK provoca l'attivazione dei recettori

(meccanici—termici) delle fibre C. La 5-HT è responsabile delle reazioni di

vasodilatazione ed edema, della risposta triple descritta da Lewis (2). La BK

attiva la cascata delle fosfolipasi  A2-cicloossigenasi che sintetizza numerosi

eicosanoidi (prosteglandine, prostacicline, leucotrieni) (3). »

 

Quindi la BK e gli ioni potassio sono responsabili  dell‘attivazione recettoriale

mentre le prostaglandine prolungano la sensibilizzazione e causano

l’abbassamento della soglia del dolore. Questi processi di reclutamento e di

sensibilizzazione sia dei nocicettori che delle afferenze primarie va sotto il nome di

iperalgesia. Essa e definita come un'alterazione della sensibilità a causa della

quale l‘intensità della sensazione dolorosa, indotta da uno stimolo, è

enormemente accentuata (4,5).

L‘iperalgesia primaria è provocata dalla liberazione di peptidi algogeni vasoattivi

dalle cellule danneggiate ed è una risposta che si manifesta in pochi minuti.

L'iperaIgesia secondaria è una risposta ritardata la cui origine è complessa ed

ancora non perfettamente chiarita, che coinvolge sia la sensibilizzazione

periferica che Ie modificazioni nel SNC.

 

Hardy e coll. (5) furono i primi ad ipotizzare che I'iperalgesia secondaria

riflettesse modificazioni avvenute a livello del midollo. Essi hanno ipotizzato che

la trasmissione dell‘informazione nocicettiva, dall'area lesa alle corna posteriori,

porti ad una "sensibilizzazione" anche dei neuroni che ricevono afferenze dalle

zone non direttamente coinvolte dalla lesione. Tale sensibilizzazione potrebbe

essere mediata da una riduzione dell'inibizione tonica e dalla creazione di nuovi _

contatti sinaptici (3).

Le terminazioni nervose delle afferenze primarie formano sinapsi secondo un

preciso modello anatomico all‘interno delle corna posteriori, mantenendo una

localizzazione spaziale degli stimoli applicati perifericamente. I neuroni nocicettivi

di secondo ordine, con il corpo cellulare nelle corna dorsali e con le loro

terminazioni assonali nel talamo, sono distinti in due tipi: quelli che rispondono a

deboli stimolazioni e che incrementano la risposta quando Io stimolo diviene più

intenso (nocivo) e quelli che rispondono a stimoli esclusivamente nocivi. Questi

neuroni sono rispettivamente definiti WDR (Wide Dynamic Range) e NS

(Nociceptive—specific) (6). Le sinapsi dei nocicettori di secondo ordine e dei

neuroni WDR hanno una organizzazione somatotopica, ma recenti acquisizioni

mostrano che queste connessioni non sono immodificabili. La risposta dei

neuroni WDR subisce un progressivo incremento in seguito a stimoli ripetuti,

fenomeno questo definito "wind-up" neuronale. Inoltre, in risposta a stimolazioni

nocicettive, ne sono state rivelate modificazioni spontanee (modificazioni

plastiche) (7). Queste modificazioni sono rappresentate dalla espansione del

campo di ricezione del neurone e dalla insorgenza di sensibilità verso stimoli

diversi da quello nocicettivo.

Questo fenomeno, detto di "sensibilizzazione centrale", e quindi caratterizzato da

una attivazione facilitata dei nocicettori dei neuroni del tratto spinotalamico da

parte di stimoli non dolorosi condotti da fibre a lenta conduzione. Tali fenomeni

hanno un‘importante rilevanza clinica (7,8). Infatti Ie manifestazioni cliniche

associate alla sensibilizzazione centrale e all'iperaIgesia secondaria provocano

un aumento dell’intensità del dolore ela comparsa di allodinia e di alterazioni del

tono simpatico regionale (7).

La sensibilizzazione centrale può persistere anche per molto tempo dopo il

trauma poiché a livello delle corna dorsali si possono verificare modificazioni

biochimico-strutturaIi come I'espressione del proto-oncogene c-fos, il quale

sembra essere un marker dei cambiamenti funzionali prolungati quali la

sensibilizzazione centrale e il fenomeno del "wind up" (9).

 

EFFETTI SISTEMICI DEL DOLORE ACUTO

 

La necessità di trattare un dolore acuto, nasce anche dall'osservazione che esso

è accompagnato da modificazioni a carico di organi e apparati, il cui

coinvolgimento può essere estremamente dannoso per il paziente. Dopo una

lesione tissutale si manifestano profonde alterazioni neuroendocrine dovute alla

stimolazione dell'ipotalamo che é direttamente collegato alle vie del dolore .

Tali manifestazioni, definite "reazioni da stress", sono caratterizzate

dall’increzione di ormoni catabolici e dall'inibizione di sostanze anabolizzanti

come il testosterone e I'insulina (10). Tali alterazioni danno origine alla

mobilizzazione dei substrati con la comparsa di iperglicemia e di

negativizzazione del bilancio azotato. L’ipermetabolismo associato alla risposta

allo stress fornisce all'organismo una maggiore disponibilità energetica

immediata ma tali modificazioni , prolungate nel tempo, possono influenzare

negativamente l'outcome del paziente con due meccanismi. Il primo, l’eccessiva

perdita di proteine, può condurre a una riduzione della massa muscolare con

conseguente ritardo del recupero funzionale.Ill secondo, l'immunodepressione

secondaria alla riduzione della sintesi delle immunoglobuline e dell'attività

leucocitaria può portare ad una maggiore sensibilità alle infezioni.

Contemporaneamente alla risposta ipotalamica si manifesta una reazione del

sistema nervoso simpatico che ha una azione diretta sul sistema

cardiovascolare. Compare un incremento della ritenzione idro-salina, con

conseguente incremento del  lavoro cardiaco. L'angiotensina II causa una

vasocostrizione generalizzata. Le catecolamine provocano un’incremento della

frequenza cardiaca, della contrattilità miocardica e delle resistenze vascolari

sistemiche. Tutto ciò si traduce in una situazione di ipertensione, tachicardia e

disritmia con conseguente ischemia miocardica nei pazienti suscettibili. La

ritenzione idrosalina, inoltre, in associazione agli effetti sopra descritti, può

precipitare situazioni di labile compenso cardiaco.

Da un punto di vista respiratorio,le modificazioni neuroendocrine provocano un

aumento dell'acqua extracellulare a livello polmonare con alterazione del

rapporto ventilazione-perfusione. Inoltre, in seguito a procedure chirurgiche sul

torace e sull'addome, il dolore induce dei riflessi che comportano un incremento

nella tensione muscolare scheletrica con conseguente riduzione della capacità

polmonare totale ed ipoventilazione. Tali modificazioni promuovono l'insorgenza

di atelettasia, che aggrava situazioni di anormalità nel rapporto ventilazione-

perfusione con conseguente ipossiemia.

In caso di procedure chirurgiche maggiori, questi effetti possono comportare una

riduzione della CFR del 25-50% rispetto ai valori preoperatori (11,12).

L'ipossiemia, se inizialmente determina un aumento della ventilazione minuto

con conseguente ipocapnia, successivamente, in seguito al mantenimento di una

situazione di iperlavoro respiratorio, in soggetti predisposti può sfociare in

un'insufficienza respiratoria con ipercapnia.

Le stesse modificazioni neuroendocrine prima enunciate sono responsabili

dell'inibizi0ne riflessa della funzione gastrointestinale con conseguente ileo

postoperatorio. Esso comporta nausea, vomito, discomfort per il paziente e può

aggravare l‘iperventilazione (13)

Di grosso interesse sono Ie conseguenze che Io stress induce sul sistema

immunitario. Può manifestarsi Iinfopenia, Ieucocitosi e depressione del sistema

reticoIo-endoteIiaIe (14,15). Questi effetti determinano un abbassamento delle

resistenze ai patogeni, e ciò può risultare un fattore chiave nello sviluppo delle

complicanze infettive perioperatorie. In pazienti neoplastici, la manipolazione

chirurgica del tumore può comportare rilascio di cellule neoplastiche, e la

situazione di stress può inficiare l’attività citotossica delle cellule T killer (15).

Gli effetti mediati dallo stress sulla coagulazione si possono riassumere in

alterazioni della viscosità ematica, della funzionalità piastrinica e della fibrinolisi

(16-18). Tutto ciò comporta uno stato di ipercoagulabilità, che in pazienti costretti

all’ immobilità aumenta notevolmente l'incidenza di eventi tromboembolici.

 

Alla luce di quanto sopra esposto, il trattamento del dolore acuto, oltre all’aspetto

prettamente etico, assume un'importanza fondamentale in quanto in grado di

migliorare enormemente I‘outcome del paziente, riducendo significativamente

mortalità e morbilità.

 

TRATTAMENTO FARMACOLOGICO

 

I farmaci attualmente in uso per ll dolore acuto sono rappresentati dai NSAIDs,

dagli oppioidi, dagli anestetici locali, dagli a2-agonisti e dai corticosteroidi.

NSAIDs

I farmaci antiinfiammatori non steroidei (NSAIDs) sono agenti con azione similare

ma con diversa struttura chimica. L'aspirina e il salicilato di sodio sono stati I

primi NSAIDs ad essere introdotti nella pratica clinica ai primi del '900.

Recentemente si  è assistito ad un crescente interesse della ricerca per I NSAIDs

con effetto più selettivo sul dolore, e questo ne ha giustificato la notevole

diffusione nella pratica clinica.

La scoperta che i NSAIDs inibiscono selettivamente la biosintesi delle

prostaglandine ha fatto teorizzare che queste svolgano un ruolo fondamentale

nei processi flogistici (19,20). La maggior parte dl questi agenti modula la sintesi

delle prostaglandine tramitelI'inibizlone dell‘enzima cicloossigenasi, che catalizza

una delle prime tappe della conversione dell‘acido arachidonico in prostaglandine

(21). Attraverso la riduzione della sintesi prostaglandinica, gll inibitori delle

cicloossigenasi bloccano la risposta nocicettiva ai mediatori endogeni della

flogosi come la bradichinina, I'acetilcolina e la serotonina (22). E' noto che

l‘enzima ciclo-ossigenasi e codificato da due geni (23). Due forme di enzima

(COX—1 e COX-2) sono state caratterizzate. La COX1 è prodotta normalmente in

condizioni di quiescenza ed è un costituente delle cellule sane. Questo enzima

ha un ruolo importante quando le prostaglandine hanno una funzione protettiva,

come nella produzione del muco gastrico o nel mantenimento del flusso ematico

renale. La COX-2 e la forma inducibile dell’enzima, ed è il maggiore isoenzima

associato con la flogosi. La sua produzione è indotta da agenti  infiammatori nelle

cellule endoteliali, nei macrofagi e nei fibroblasti sinoviali. La quota di inibizione

tra COX1 e COX2 da parte dei NSAIDs determinerà la comparsa di effetti

indesiderati. NSAIDs quali I‘aspirina e l’indometacina che inibiscono

maggiormente la COX1, saranno gravati dai maggiori effetti indesiderati rispetto,

ad esempio, all'ibuprofene che agisce prevalentemente sulla COX2. Quindi la

ricerca si è orientata verso l’individuazione di inibitori selettivi della COX2.

Recentemente, oltre all‘azione periferica dei NSAIDs, ne è stata ipotizzata anche

un‘azione a livello del SNC. Ciò perché vi sono evidenze cliniche dl NSAIDs per i

quali l'azione analgesica non è proporzionata a quella anti-infiammatoria (24). Se

è vero, come ipotizzato, che gli effetti antipiretici dei NSAIDs sono imputabili

all'inibizione prostaglandinica a livello centrale (25,26), è possibile che la stessa

azione centrale possa inibire l‘attività neuronale indotta da aminoacidi eccitatori e

bradichinina (27).

Allo stato attuale i NSAIDs sono farmaci di prima scelta per il controllo del dolore

acuto moderato e sono raccomandati come "first steep" nella scala analgesica

sviluppata dalla World Health Organizzation. Sebbene tutti i NSAIDs abbiano

proprietà analgesiche, essi, come abbiamo visto, differiscono nel meccanismo di

azione, nel tempo di dimezzamento, nella durata di azione, e nella tossicità, tutti

fattori questi che ci aiutano nella selezione del farmaco migliore per le esigenze

individuali del paziente. Va sottolineato che il massimo effetto analgesico dei

NSAIDs si ottiene nel casi in cui il dolore è associato alla flogosi. In questi casi

l'analgesia ottenuta è sovrapponibile a quella con oppioidi.

Gli effetti di un'infusione costante di acetilsalicilato di lisina sono stati paragonati

a quelli con un‘infusione costante di morfina in pazienti sottoposti ad

ernioplastica inguinale. Il salicilato ha determinato un'anaIgesia equivalente a

quella con oppioide, con un'incidenza significativamente ridotta di nausea e

vomito (28).

Tra i NSAIDs merita una menzione particolare il ketorolac. Studi condotti sugli

animali hanno mostrato per questa molecola un maggior effetto analgesico

rispetto ad aspirina, fenilbutazone, naproxene e indometacina (29,30). Anche per

il ketorolac si pensa che il meccanismo d'azione sia legato all'inibizione delle

cicloossigenasi con blocco della produzione di prostaglandine (31). Non ha

attività oppioide, infatti non si lega ai recettori m, k, d e quando e utilizzato per

lunghi periodi la brusca sospensione non determina sintomi di astinenza (32,33).

In studi clinici il ketorolac im (30 mg) ha manifestato nelle prime ore

postoperatorie una maggiore efficacia analgesica rispetto al diclofenac im (75 mg

) (34). In un trial clinico il confronto tra mortina im (12mg) e ketorolac im (30 mg)

ha dimostrato che quest'ultimo e più efficace per il controllo del dolore

postoperatorio moderato (33). Per il dolore acuto severo il ketorolac a dosaggi

pieni (90 mg) ha determinato un‘analgesia migliore rispetto alla meperidina (100

mg) (34) e alla morfina (12 mg) (35). Va considerato che il trattamento prolungato

con ketorolac a dosaggi elevati aumenta però la possibilità di effetti collaterali

gastrointestinali e renali.

Con la somministrazione ev il ketorolac (10 mg) riduce il pain score nella prima

ora postoperatoria in misura maggiore rispetto alla morfina (4 mg) (36).

Somministrato tramite PCA (infusione continua 5 mg/h con bolo di 5 mg) in corso

di interventi minori, ha determinato un'analgesia comparabile a quella con

morfina somministrata con la stessa metodica (1 mg/h in infusione continua con

dose bolo 1 mg) (37), Viceversa, per interventi di chirurgia maggiore come

toracotomie o Iaparotomie, il ketorolac è risultato meno efficace rispetto agli

oppioidi, soprattutto nelle prime ore postoperatorie (38).

Di recente introduzione nella pratica clinica è il concetto di "preemptive

analgesia" (39,40). E' stato suggerito che la somministrazione preoperatoria di

NSAIDs, inibendo la produzione dl PG, possa ridurre l’iperalgesia primaria e

secondaria e quindi il dolore postoperatorio (41). ln un recente editoriale (40)

Woolf e coll. suggeriscono che la "preemptive analgesia" deve essere l'obiettivo

per tutti i pazienti coinvolti in cure postoperatorie. Comunque la validità di questa

metodica come strategia clinica di routine deve essere valutata alla luce di più

ampi trials che comparino l‘efficacia dell’analgesia pre o post incisionale e le

modalità intermittente o continua di somministrazione.

ln una nostra esperienza in pazienti sottoposti a colecistectomia, la

somministrazione preoperatoria di ketorolac (30 mg im) seguiti da infusione

continua 2 mg/h, ha migliorato il pain relief nel postoperatorio. Questo studio ha

mostrato che l'uso preoperatorio di ketorolac è un metodo efficace e sicuro per il

controllo del dolore dopo chirurgia addominale (42).

OPPIOIDI

Anche se gli effetti farmacologici dell‘oppio erano conosciuti fin dall‘antichità, la

sua prima somministrazione si fa risalire a Christopler Wrem, dell‘Università di

Oxford, che, nel 1656, inietto una dose di oppio ad un cane.

Le indispensabili premesse per una somministrazione endovenosa furono

comunque messe a punto solo più tardi, sia con l'invenzione della siringa

ipodermica, che con la sintesi di farmaci idonei. Ai primi del '900 il giapponese

Ketawata iniettò nello spazio subaracnoideo una miscela di morfina ed eucaina

in due pazienti trattando con successo dei dolori lombari irriducibili.

Sorprendentemente questa tecnica non fu più utilizzata per 70 anni. Si devono

infatti a Yaksh e Rudy (1976) i primi studi moderni sulla somministrazione spinale

di oppioidi. La morfina e i composti relativi agiscono come agonisti, producendo

l‘effetto biologico, mediante interazione stereoselettiva con recettori di membrana

saturabili, distribuiti non uniformemente nel SNC. Questi recettori, nel SNC, li

troviamo prevalentemente a livello della materia grigia periacqueduttale e

periventricolare, nucleo reticolare gigantocellulare, talamo mediale, formazione

reticolare mesencefalica, ipotalamo laterale e midollo spinale (43). Si distinguono

5 recettori degli oppioidi (m, k, d, s, e) Sono stati poi proposti dei sottotipi per i

recettori m, k e s . l recettori m1 mediano l'analgesia sopraspinale, il rilascio di

prolattina e I'euforia. I recettori m2 mediano la depressione respiratoria e la

dipendenza fisica. I recettori d e k sono parzialmente responsabili dell‘anaIgesia

spinale. La miosi e la sedazione sono il risultato dell‘attività del recettore k,

mentre l'attività dei recettori s provoca disforia e allucinazioni. Gli agonisti puri

presentano affinità peri recettori m1, m2, d e k, spiegando l'effetto analgesico

centrale e spinale, cosi come gli effetti indesiderati dose relativi e la potenziale

dipendenza. Le differenze che si riscontrano nell'azione di questi farmaci sono il

risultato non solo della selettività  recettoriale, ma anche della lipofilicità di questi

agenti. Le proprietà farmacologiche degli oppioidi misti agonisti-antagonisti sono

il risultato della loro affinità per le sottoclassi recettoriali degli oppioidi. A tal

proposito distinguiamo due gruppi. Il primo è caratterizzato da un'alta affinità

recettoriale m con una attività minore o similare a quella della morfina. Ad esso

appartengono la buprenorfina e la dezocina. Nel secondo troviamo agenti che

posseggono solamente una moderata affinità a livello dei recettori m con azione

prevalente a livello dei recettori k e s. A questo gruppo appartengono la

pentazocina, il butorfanolo, e la nalbufina, tutti caratterizzati da profondi effetti

sedativi e da potenziali azioni psicomimetiche.

Di recentissima introduzione nel nostro mercato è il tramadolo, un oppioide

sintetico del gruppo dell’aminocicloesanolo. Si tratta di un analgesico ad azione

centrale con proprietà agoniste sui recettori degli oppioidi ed effetti sulla

neurotrasmissione noradrenergica e serotoninergica. Paragonato ad altri agonisti

oppioidi (morfina, petidina), esso sembra avere una minore incidenza di

depressione cardiorespiratoria ed un più basso potenziale di dipendenza. Il

tramadolo somministrato per via orale, parenterale o rettale ha dimostrato di

possedere una buona efficacia analgesica sul dolore di origine più varia (44).

La durata media dell‘effetto analgesico del tramadolo è di circa 6 ore dopo ogni

singola dose, l'onset time dell‘effetto analgesico si situa nella larga maggioranza

dei pazienti tra i 10 e i 20 minuti.

Nel dolore postoperatorio il tramadolo usato per via e.v. con PCA è risultato

essere equivalente alla petidina, 1/5 rispetto alla nalbufina e 1/100 rispetto al

fentanyl a pari dosaggio (45). Somministrato per via ev in dosi di 50-150 mg ha

un'efficacia analgesica pari a quella della morfina in dosi di 5-15 mg nel

trattamenito di pazienti con dolore postoperatorio moderato ma non severo (46).

Per via i.m. l'effetto di 50 mg di tramadolo nel dolore postoperatorio è risultato

similare a quello ottenuto con pentazocina e nefopam, ma inferiore alla

buprenorfina (47). Anche per via orale 50 mg di tramadolo sono risultati essere

equivalenti a 50 mg di pentazocina.

Per via epidurale, con la somministrazione di 100 mg di tramadolo si è avuta

un‘analgesia migliore e di più lunga durata (9.4 vs 6 ere) rispetto alla

somministrazione epidurale di 10 ml di bupivacaina 0.25% in interventi di

chirurgia addominale (48).

In case di analgesia ostetrica, in diversi studi si e riscontrato che il tramadolo per

via ev o im ha determinate un’anaIgesia equivalente a quella ottenuta con

pentazocina e morfina con una minore incidenza di depressione respiratoria

neonatale (49). Il tramadolo trova anche indicazione in case di nevralgie, artriti,

dolore neoplastico, dolore post-traumatico e dolore anginoso.

Nonostante la sintesi di nuove molecole oppioidi, la morfina rimane sicuramente

l'oppioide più utilizzato nel trattamento del dolere acuto, fatta eccezione per il

travaglio di parto, a causa della sua grande capacità di deprimere la respirazione

neonatale (50).

In caso di travaglio, l‘oppioide somministrato per via i.m. maggiormente

impiegato é la meperidina, alla dose di 50-150 mg (51). L'efficacia di questo

farmaco è assai scarsa, in quante ha una percentuale di insuccessi di circa il

75% (52) e con dosaggi maggiori o ripetuti si osservano frequentemente effetti

collaterali indesiderati (nausea e vomito nel 50% dei casi) (53,54). Inoltre, la

somministrazione intramuscolare di meperidina durante il primo stadio del

travaglio può determinare una lieve ma progressiva acidosi metabolica materna

e fetale (55).

Per quante riguarda la via endovenosa, secondo alcuni il fentanyl sarebbe da

preferirsi, in quanto ridurebbe l'incidenza di effetti collaterali, e, nel caso di

somministrazione in corso di travaglio di parto, le necessità di somministrazione

neonatale di naloxone (56). L‘analgesia ottenuta è tuttavia parziale ed incompleta

ed accompagnata da leggera sedazione.

Un progresso nel controllo del dolore post operatorio con oppioidi per via

endovenosa è rappresentato dalla introduzione della metodica PCA (57). Essa si

avvale di pompe computerizzate programmabili che permettono di impostare il

dosaggio di farmaco e l'intervallo di tempo tra una dose e l'altra. Essendo dotate

di una serie di dispositivi di sicurezza impediscono il sovradosaggio volontario o

accidentale. Si ottiene in questo modo la minimizzazione delle differenze

farmacocinetiche e farmacodinamiche individuali, con livelli plasmatici di farmaco

a valori quasi costanti, soddisfacendo le richieste personalizzate dei pazienti

(58).

L‘infusione endovenosa continua può essere associata alla PCA (59,60). In

questo modo è possibile ottenere un sonno prolungato durante la notte senza

che il paziente sia periodicamente costretto a premere il pulsante per

l’autosomministrazione. Inoltre il mantenimento di un soddisfacente livello di

analgesia consente di raggiungere un ottimo confort .

Lo svantaggio dell'associazione PCA e infusione continua è rappresentato

dall'aumento della dose totale di oppioide e dalla maggior incidenza di effetti

collaterali. Generalmente la dose media di morfina in PCA con analgesia a

domanda equivale a circa 1,2-1,5 mg/h di morfina, secondo il tipo di anestesia e

di richieste individuali.

Alcuni studi (59-62) hanno confrontato l'analgesia postoperatoria ottenuta con

somministrazione di morfina per via intramuscolare, per via epidurale o per via

endovenosa con metodica PCA, in pazienti che avevano subito un parto

cesareo. Sebbene la morfina per via epidurale abbia assicurato una maggiore

analgesia, la morfina PCA ha ottenuto un maggior gradimento da parte dei

pazienti.

Ancor più recentemente è stata proposta la somministrazione di oppioidi

altamente liposolubili attraverso la cute intatta con un sistema di membrane

permeabili per regolarne la diffusione (Transdermal Therapeutic System - TTS).

Lo scopo di questa via di somministrazione è quello di dare un'analgesia

prolungata attraverso livelli plasmatici costanti di farmaco. All'estrema semplicità

di uso si contrappone un lungo periodo di latenza prima del raggiungimento di

un'analgesia efficace e il perdurare di un‘alta concentrazione plasmatica del

farmaco anche dopo la rimozione del TTS (63).

Per quanto riguarda l'uso degli oppioidi per via spinale, i primi a dimostrare che

basse dosi di questi potevano antagonizzare i riflessi polisinaptici nocicettivi

furono Bodo e Brooks (64) e Winkler (65). In seguito fu dimostrato, sempre

nell'animale spinale, che dosi analgesiche di oppioidi antagonizzavano

selettivamente le scariche evocate da una stimolazione periferica di elevata

intensità dei neuroni delle corna spinali dorsali (66-68).

Studi elettrofisiologici hanno dimostrato che i recettori attraverso i quali gli

oppiacei esercitano il loro effetto dovrebbero essere localizzati nella sostanza

gelatinosa, in vicinanza delle terminazioni afferenti primarie (69). L'effett0 degli

oppioidi dipende non soltanto dalle loro affinità per un particolare recettore ma

anche dalla loro abilità a raggiungerlo. L'azione clinica degli oppioidi usati per via

spinale dipende dalle loro capacita di raggiungere i recettori specifici, penetrando

attraverso le lamine superficiali del corno posteriore, dalle dosi somministrate e

dalle vie di somministrazione. Oltre a ciò, rilevante importanza hanno le

caratteristiche fisico-chimiche, prima fra tutte la liposolubilità, direttamente

collegata al tempo di latenza e alla potenza (70).

La durata dell'analgesia è inversamente proporzionale alla liposolubilità ma è

anche notevolmente influenzata dalla velocità di dissociazione dei ligandi dai siti

recettoriali. L'effetto collaterale più temibile nell‘uso degli oppioidi per via spinale

è l’insorgenza di depressione respiratoria. Secondo uno studio della società

svedese di anestesia, che ha esaminato 9000 pazienti, l‘incidenza di

depressione respiratoria dopo somministrazione epidurale di oppioidi è dello

0,25-0,40%, mentre dopo quella subaracnoidea e del 4,4-7% (71).

L'incidenza è correlabile all‘età dei pazienti (72), alla presenza di malattie

polmonari, alla contemporanea somministrazione di narcotici per via parenterale

ed alle dosi impiegate. Il tempo di latenza per l'insorgenza della depressione

respiratoria dopo somministrazione intratecale è abbastanza variabile. Per la

morfina è stato osservato essere compreso tra le 6 e le 10 ore, con un ritorno

alla norma intorno alle 23 ore (73). Si tratta quindi sempre di una depressione

respiratoria tardiva che rappresenta un grave rischio soprattutto per il modo

subdolo di insorgenza. La depressione respiratoria dopo somministrazione

epidurale può, invece, essere precoce o ritardata. Si è osservata dopo 1 ora

dalla somministrazione di meperidina (71) ed è probabilmente dovuta

all'assorbimento vascolare attraverso le vene epidurali e alla rapida distribuzione

al cervello tramite le vene basi vertebrali. Un altro studio (74) mostra, al

contrario, che gli effetti depressivi sulla respirazione che compaiono dopo 30-120

minuti dalla somministrazione di fentanyl epidurale sono imputabili alla sua

migrazione cefalica nel liquor . La depressione tardiva è invece stata riportata

soltanto per la morfina epidurale e per essa sono stati ipotizzati gli stessi

meccanismi della via subaracnoidea.

La somministrazione di oppioidi, in particolare di morfina, 0,25-1,5 mg, per via

subaracnoidea, ha trovato applicazione nel dolore acuto da travaglio di parto.

Essa, anche a dosaggi elevati, non produce un'analgesia soddisfacente se non

durante il primo stadio del travaglio ed il tempo di latenza per il raggiungimento

dell’effetto analgesico è relativamente lungo, 45-60 minuti, cosa inaccettabile nei

pazienti con dolore acuto. Per quanto riguarda la somministrazione epidurale, la

morfina è stata largamente utilizzata a dosaggi variabili (3-10 mg) (75-77) anche

in relazione alla posizione lombare o toracica del catetere epidurale,

evidenziando una durata di azione di 12-24 ore (78-80). La morfina può essere

somministrata anche in infusione continua ad una velocita di 4-6 ml/h (soluzione

0,1 mg/ml). Con tale modalità si sono ottenuti buoni risultati in pazienti sottoposti

sia a toracotomia che a resezione di aneurisma addominale (81,82).

Anche il fentanyl somministrato per via epidurale, sia in modo intermittente che in

infusione continua, ha assicurato un buon grado di analgesia (83,84). L‘analgesia

epidurale da fentanyl  è caratterizzata da un rapido inizio di azione e da una

breve durata ed è per tale motivo che si preferisce l'infusione continua. Con tale

metodica si è ottenuta un'analgesia ottimale per interventi di ortopedia, chirurgia

maggiore e toracica con un‘infusione di 0,5 mg/kg/h utilizzando soluzioni a

concentrazione di 10mg/ml (85-87).

La somministrazione epidurale di oppioidi è utilizzata anche per il travaglio di

parto, ma come quella subaracnoidea, si e dimostrata insufficiente a produrre

un‘analgesia adeguata per tutto lo svolgimento del travaglio del parto (88,89). Gli

oppioidi altamente liposolubili sembrano i più idonei a questo scopo, soprattutto

se somministrati in infusione continua a bassi dosaggi in modo da aumentarne la

manegevolezza (90). La meperidina si è dimostrata la più efficace tra gli oppioidi

utilizzati (91,92). Comunque, allo stato attuale, sembra che nessuno degli

oppioidi disponibili sia in grado, da solo, di abolire adeguatamente il dolore del

secondo stadio del travaglio e del periodo espulsivo, anche a dosi elevate. Tale

considerazione ha portato a sperimentare l’associazione degli oppioidi con gli

anestetici locali. Questa associazione permette di ridurre gli effetti collaterali di

alte concentrazioni di anestetici locali (blocco motorio, influenza sulla dinamica

del travaglio e del parto, possibili effetti cardiovascolari e tossici) e di evitare lIa

possibilità, in caso di basse concentrazioni, di incompleta analgesia (93). Gli

oppioidi che più si prestano ad essere associati agli anestetici locali sono

ovviamente quelli con più breve tempo di latenza e durata di azione e con

passaggio transplacentare ridotto quali il fentanyl (94,95), il sufentanyl o

l'alfentanil (96,97).

 

ANESTETICI LOCALI

Gli anestetici locali sono usati nel trattamento del dolore acuto sia per ottenere

dei blocchi nervosi periferici, sia per via epidurale in eventuale combinazione con

gli oppioidi. l blocchi nervosi possono essere utilizzati da soli o in combinazione

con PCA e.v. (98,99).

L‘anestetico locale maggiormente usato, per la sua lunga durata di azione, è la

bupivacaina. Mentre in passato sono state usate concentrazioni allo 0,25-0,50%,

in questi ultimi anni concentrazioni più basse si sono rivelate più maneggevoli e

capaci di ottenere un‘analgesia selettiva. I blocchi nervosi più comunemente

utilizzati sono quello femorale (100), brachiale (101), intercostale (102). Talil

tecniche sono usate spesso con successo nel dolore post-traumatico con minimi

effetti emodinamici e sono prive dei rischi associati alla somministrazione di

oppioidi. Nel trattamento del dolore postoperatorio le concentrazioni di

bupivacaina utilizzate variano dallo 0,075% a 0,125%. Basse dosi di anestetico

locale, in eventuale combinazione con oppioidi, sono solitamente ben tollerate,

sebbene si possano realizzare sia il blocco simpatico che un certo grado di

blocco motorio. l volumi di anestetico locale utilizzati sono di circa 10 ml con un

range tra 5 e 20mi.

Anche nel travaglio di parto l'anestetico locale più usato è la bupivacaina. Allo

stato attuale la concentrazione allo 0,125% sembrerebbe la più efficace, quando

si voglia offrire alla paziente una soddisfacente analgesia per tutta la durata del

travaglio e del parto evitando di interferire con la dinamica dello stesso (60). Per

la tecnica a basso dosaggio viene impiegata sempre la stessa dose di

bupivacaina allo 0.125% con adrenalina 1:800.000 (59). La dose iniziale di 10 ml

viene ripetuta per tutta la durata del travaglio, ogni volta che la paziente Io

richiede. A dilatazione avvenuta può essere necessaria una dose perineale,

somministrata con la paziente in posizione semiseduta, in modo da facilitare

l'estensione caudale della soluzione anestetica. Una ulteriore dose può essere

necessaria se si pratica l‘episiotomia e l’episioraffia. In quest'ultimo caso è più

indicato utilizzare un anestetico locale più potente della bupivacaina allo 0.125%

(es. lidocaina o mepivacaina all‘1-2%) in quanto si deve abolire un dolore di tipo

chirurgico. Come detto già in precedenza, per il dolore acuto in corso di travaglio

di parto l’associazione degli AL con gli oppioidi appare essere la soluzione ideale

(90,103). Infatti, l'aggiunta di un oppioide alla bupivacaina riduce il tempo di

latenza, prolunga e intensifica I‘analgesia e soprattutto riduce il dosaggio di A.L..

In tal modo aumenta la sicurezza in caso di iniezione intravascolare o

subaracnoidea accidentale e si ottiene un'ottima analgesia con un blocco motorio

minimo se non addirittura assente (89). E' stato dimostrato che |‘associazione di

100 mg di fentanyl alla buplvacaina allo 0.125% migliora costantemente le

qualità e la durata dell‘analgesia risolvendo alcuni degli inconvenienti dopo uso

della bupivacaina a basso dosaggio (89). L'associazione con il fentanyl potenzia

l‘analgesia senza dover ricorrere a dosaggi più elevati di AL in quanto i tempi tra

una somministrazione e l’aItra si allungano. Con questa tecnica si registra

scarsissimo blocco motorio con conseguente mantenimento della forza

espulsiva.

 

ALFA 2 AGONISTI

L’uso degli a2 agonisti nella terapia antalgica rappresenta una nuova area di

ricerca piuttosto interessante. L‘esatto meccanismo con cui essi operano a

riguardo dell'anaIgesia non è noto. E' probabile che essi attivino i recettori pre e

post sinaptici a livello delle vie noradrenergiche coinvolte nel controllo del dolore,

al livello delle corna dorsali del midollo e a livello sovraspinale.

Perioperatoriamente la clonidina è stata somministrata per via parenterale, orale,

intratecale, epidurale e attraverso patch transdermici. Sebbene molti studi

abbiamo testato l'efficacia della clonidina (104,105) come coadiuvante

dell'anestesia e quando somministrata per via intratecale (106) o epidurale (107)

nel controllo del dolore postoperatorio, pochi studi hanno valutato la sua capacità

analgesica quando è somministrata per via sistemica (107-109).

La clonidina somministrata per via epidurale non garantisce un completo pain

relief dopo chirurgia maggiore, eccetto in quei casi in cui si ricorre a dosi superiori

ai 300 mg le quali, tuttavia, sono gravate da effetti indesiderati come ipotensione,

bradicardia ed eccessiva sedazione (110). La combinazione con gli oppioidi

sembra produrre i migliori risultati. In uno studio la somministrazione di clonidina

epidurale (20 mg/h) ha incrementato significativamente l‘analgesia prodotta dalla

morfina epidurale in pazienti sottoposti a chirurgia addominale maggiore (111).

Per quanto riguarda la somministrazione sistemica, uno studio riporta un marcato

prolungamento dell'analgesia dopo blocco subaracnoideo, con la

somministrazione di clonidina orale (150 mg) quando questa è paragonata a

quella intratecale (106). L'effetto analgesico della clonidina ev è stato indagato

da pochi studi. In un primo studio la comparazione tra placebo, meperidina e

clonidina ha mostrato che quest'ultima (200 mg) determina lo stesso pain relief

della meperidina (50 mg) (112). In un nostro studio (109) condotto su pazienti

con dolore post-emilaminectomia abbiamo dimostrato che una dose carico di

clonidina ev (2mg/kg) seguita da una infusione continua di 0.1mg/kg/h riduce

significativamente la richiesta di buprenorfina somministrata tramite PCA. Con

tale dosaggio si è inoltre al riparo da effetti indesiderati quali ipotensione,

bradicardia, depressione respiratoria.

 

CORTICOSTEROIDI

Tali farmaci possono avere un ruolo nel controllo del dolore acuto e subacuto

(113). Esplicano il massimo effetto nei casi in cui il dolore è associato ad edema,

o quando c‘è infiltrazione tumorale o compressione nervosa. Essi agiscono

tramite l'effetto antiinfiammatorio e mediante una riduzione dell’eccitabilità

neuronale con azione diretta sulla membrana cellulare (114). Effetti indesiderati

legati alla loro somministrazione cronica sono l’immunodepressione, gastriti,

ritenzione di liquidi, ipertensione, iperglicemia, sindrome di Cushing e in alcuni

casi sintomi psichiatrici (115).

Pochi studi sono stati effettuati per testare l'efficacia dei corticosteroidi sul dolore

postoperatorio. La sua efficacia è stata dimostrata, in questo caso, quando

somministrati per via topica. In un nostro studio effettuato su pazienti sottoposti

ad emilaminectomia, la somministrazione di betametasone(4mg) nel sito

chirurgico, ha ridotto significativamente la necessità di oppioidi somministrati nel

postoperatorio mediante PCA (116), garantendo un ottimo pain relief.

I

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